Teatro

NAPOLI A PISA

NAPOLI A PISA

Iniziava l’afosa estate del 1977, ed il Festival dei Due Mondi era ancora una manifestazione di rinomanza e portata internazionale  - oltre che una ricercata vetrina di mondanità - tanto che l’apertura della sua ventesima edizione, la sera del 22 giugno, venne trasmessa in mondovisione. Andava in scena ovviamente, come da tradizione, una ‘prima assoluta’, frutto questa volta della collaborazione tra il maggior commediografo italiano, Eduardo De Filippo, ed un grande musicista classico prestato al cinema, Nino Rota:  il titolo era “Napoli milionaria”, adattamento musicale di uno dei più famosi titoli del grande attore/autore/regista partenopeo.
Il pubblico accolse bene l’esperimento, tributando calorosi apprezzamenti; la critica invece - specialmente certa ‘intransigente’ critica di sinistra - si mostrò ostile, se non addirittura prevenuta nei confronti del lavoro. Non poté obiettare gran che sulla potenza del testo di De Filippo, che pur opportunamente adattato alla situazione e felicemente amalgamato alla musica, come tutti i capolavori manteneva – e mantiene ancor oggi, va da sé – un’intatta attualità; e non mosse nette obiezioni sulla sua regia, che aveva tratto il massimo dagli interpreti con lunghe e defatiganti prove, pur cedendo un po’ al bozzettismo. Si sfogò nell’altra direzione, rimproverando al Grande Autore di essersi ‘abbassato’ a collaborare con un musicista accusato di scarsa originalità, ed al quale si rinfacciava – fraintendendo grossolanamente l’intento di descrivere un certo ambiente popolare, e certe passioni elementari – l’utilizzo d’un materiale musicale spurio e  di basso valore. Come ricorda Alberto Paloscia, presente a quella prima, «Rota fu attaccato quasi come un ‘epigono’ strapaesano dell’opera verista, che aveva infarcito la partitura di citazioni della più volgare canzone napoletana».  Tanta ostilità ebbe più di un effetto, in primis quello di volatizzare l’idea d’una ripresa al San Carlo di Napoli, e poi di sottrarre l’opera alle scene per oltre un trentennio; ma pure quello di causare al musicista milanese un triste periodo di sconforto e depressione.
Unica voce a levarsi in difesa, unico critico a trovare nel 1977 la giusta chiave di lettura  di “Napoli milionaria”, fu Lele D’Amico: il quale vi lesse con acutezza «la cronaca di una degradazione collettiva nella falsa prosperità creata da una situazione eccezionale, e proiettata nell’illusorio clima festivo di una città affamata d’illusione (…) Intender questo e capire quanto sia fuori strada sia chi nella musica di Rota ha visto solo un cocktail di verismi e canzonettismi, impropri all’assunto, è tutt’uno (…) Questa partitura è il contrario di un cocktail: nella sua sapienza d’incastri fra iperboli sentimentali e spunti di color locale è un modello di lucidità drammaturgica».
Lucidità drammaturgica: è proprio quanto hanno dimostrato le recenti e meritorie riprese  del Festival di Martina Franca nel 2010 e del Lirico di Cagliari l’anno seguente, quest’ultima per il centenario della nascita di Rota; entrambe, giova ricordare, furono intelligentemente promosse da Alberto Triola. E come sta a confermare ora questa bella produzione del circuito teatrale Lucca/Livorno/Pisa, che ha proposto nuovamente questo lavoro forte e penetrante, capace di sedurre e conquistare il pubblico. Speriamo che conquisti infine anche una critica meno maldisposta, pronta a riconoscere come il testo di De Filippo, crudo e realistico, sia magnificamente servito dalla musica di Rota; una musica che pare sottomettersi ad esso, con umiltà, esaltandone la lingua teatrale con un atteggiamento che ricorda da vicino l’«opera di conversazione» dello Janáček di “Jenůfa” e “VÄ›c Makropulos”. Trovarvi le tante citazioni e  riferimenti musicali esterni è un esercizio facile: non solo perché Rota volutamente si riallaccia all’opera verista (specie alla coralità del Puccini del “Tabarro”  e de “La fanciulla del West”, al Mascagni della “Cavalleria”, al Giordano di “Mala vita”, quadro dei bassi napoletani), ma anche  per certi maliziosi occhieggiamenti al teatro di Bernestein e di Gershwin, e soprattutto all’ibrida teatralità di Menotti, il ‘deus ex machina’ del Festival Spoletino che nei suoi lavori amalgama con estro raffinato musica colta e musica ‘volgare’. Come d’altro canto si potrebbe descrivere e commentare musicalmente un ambiente – quello della Napoli degli anni di guerra – dove alla radio si sentivano le dichiarazioni del Regime alternate a quelle di Radio Londra, le voci di Natalino Otto e Alberto Rabagliati alternarsi con le musiche di Glenn Miller e di Jimmy Dorsey?
Venendo, alla fine di questa lunga introduzione, alla produzione del Laboratorio Toscano per la Lirica – Opera Studio 2012, va detto che i tre mesi di lavoro che hanno coinvolto numerosi giovani interpreti – due sono state le compagnie messe in campo alla fine - hanno dato frutti parecchio positivi, anche perché hanno avuto docenti di canto e recitazione come Marco Bargagna, Matteo Beltrami (che poi li ha diretti), Marcello Lippi, Roberto Moretti, Lorenzo Mucci, Ketty Rosselli, il regista Fabio Sparvoli, persino un Gennaro Cannavacciuolo per rendere a dovere la lingua napoletana. Ed uno storico della musica come Alberto Paloscia far loro comprendere cosa sia il teatro del Novecento.
In un’opera decisamente corale, nella quale i principali protagonisti – Amalia, Gennaro, Errico, Maria Rosaria – non potrebbero agire mai da soli, hanno mostrato tutti un’estrema bravura, cantando e recitando meravigliosamente, sempre con massima naturalezza; anche se sono tanti, bisogna citarli tutti. Erano, nella recita che abbiamo visto al Verdi di Pisa, Giuseppe Pellingra (Gennaro Iovine), Marina Shevchenco (la moglie Amalia), Manuela Ranno (Maria Rosaria Iovine), Fabio Valenti (Amedeo Iovine), Dario Di Vietri (Errico Settebellizze): un quintetto formidabile nel quale il soprano russo emergeva un tantino di più, per musicalità e partecipazione. E poi Veio Torcignani (Peppe ‘o Cricco), Gianluca Tumino (‘O Miezo Prevete), Juan José Navarro (il ragioniere Riccardo Spasiano), Antonio Sapio (Federico), Giampiero Cicino (il brigadiere Ciappa), Andrea Antonino Schifaudo (Pascalino ‘o pittore), Stefano Trizzino (il sergente Johnny), Sofio Janelidze (Adelaide), Emanuela Grassi (Assunta), Raluca Pescaru (Donna Peppenella) e Teresa Gargano (donna Vincenza).
A dare un senso a tutto, l’ineccepibile concertazione di Matteo Beltrami – una bacchetta da tenere d’occhio – che ha saputo reggere saldamente le redini di una così numerosa compagnia, e rendere al meglio una partitura eclettica come poche altre, piena di guizzi, di umori, di colori contrastanti. Insomma, se al suo apparire “Napoli milionaria” ebbe per padrino di battesimo uno strepitoso Bruno Bartoletti, con il giovane direttore milanese il grande Nino Rota non avrebbe avuto certo da lamentarsi. Né avrebbe da eccepire sull’eccellente compagine strumentale dell’Orchestra della Toscana, o sull’Ensamble vocale dell’OperaStudio 2012 diretto da Mauro Fabbri.
Ed arriviamo infine allo spettacolo in sé. Le situazioni più intense – la finta morte di Gennaro sotto i bombardamenti, il duetto tra Amalia ed Errico e quello tra Maria Rosaria e Johnny, la scena della festa con lo stranito reduce a far da convitato di pietra – come tutti gli altri momenti di questa “Napoli milionaria” hanno trovato esaltazione nella attenta regia di Fabio Sparvoli, lucida e appassionata al tempo stesso, una grande dimostrazione di mestiere, sensibilità, attenzione al testo e massima cura interpretativa. Le scene di Alessandra Torrella - autrice anche di pertinenti costumi – disegnano un povero ‘basso’ napoletano con pochi mobili d’accatto, che poi si trasforma in una pretenziosa sala piccolo-borghese. Ma l’intrusione della Polizia e l’ammazzamento inaspettato di Amedeo fa cadere d’un tratto la ricca tappezzeria che riveste l’umida parete, e l’ambiente ritorna squallido e freddo come era all’inizio. E’ così che Amalia piange straziata il figlio, è qui che Gennaro ripete la sua nenia ossessiva «Fuoco, ingiustizia e polvere, polvere e sangue…La guerra non è finita, e non è finito niente».